IL CONTRIBUTO DI J.J. THOMSON

   
 

 

Per il decennio successivo al 1888 la natura del fenomeno restò sostanzialmente oscura, nonostante venissero condotti una serie di altri ingegnosi esperimenti. Tra questi va sicuramente menzionato il contributo dell’italiano Augusto Righi, il quale osservò che la luce ultravioletta provocava una riduzione del potenziale di carica degli elettrodi di una macchina elettrostatica. Tuttavia, per assistere ad un significativo passo avanti bisognò attendere il 1899, allorché J.J. Thomson accertò che la perdita di carica elettrica del metallo irradiato avveniva a causa della emissione da parte di questo di elettroni. Per giungere a questo risultato il fisico britannico mise a frutto l’esperienza maturata con lo studio dei raggi catodici. Infatti, pose la superficie metallica in un tubo a vuoto e scoprì che quando veniva illuminata con luce ultravioletta essa emetteva lo stesso tipo di raggi provocati dall’applicazione di un forte campo elettrico: i raggi catodici, ovvero elettroni. A questo punto si cominciava ad avere una certa idea di ciò che avveniva: gli atomi costituenti il catodo contenevano elettroni che venivano sollecitati a vibrare dal campo elettrico oscillante della radiazione incidente. Capitava così che qualcuno si agitasse al punto da staccarsi e fuoriuscire dal metallo.
Il meccanismo ipotizzato consentiva di prevedere alcune caratteristiche dell’emissione fotoelettrica, quali ad esempio la dipendenza del numero e velocità degli elettroni emessi dalla intensità e colore della luce con cui si irradiava il metallo. In particolare:

  • un aumento di intensità (quindi di ampiezza del campo elettrico) avrebbe dovuto tradursi in una maggiore agitazione degli elettroni, in conseguenza della quale era ragionevole attendersi che ne venisse emesso un maggior numero e con velocità più elevata;
  • la luce di colore corrispondente a frequenza maggiore avrebbe dovuto provocare una agitazione più rapida degli elettroni, così da lasciar prevedere che venissero emessi con maggiore velocità;
  • per luce molto fioca c’era da attendersi che fosse necessario un certo tempo di irraggiamento perché un elettrone fosse posto in vibrazione con una ampiezza sufficiente a provocarne la liberazione.

Ebbene, gli sperimentatori che, alla luce di simili considerazioni, si cimentarono con l’indagine degli aspetti quantitativi dell’effetto fotoelettrico ebbero notevoli sorprese. Primo tra tutti il fisico tedesco Philipp Lenard.